Il giudice respinge la separazione strutturale: Google dovrà limitare le esclusive e condividere dati, ma Chrome e Android restano sotto il suo controllo.
Introduzione: l’epica resa dei conti
Un tribunale statunitense ha emesso una sentenza epocale: Google — ribattezzata “G gigante” nell’epico scontro tra antitrust e innovazione — è stato giudicato monopolista nel settore della ricerca online. Tuttavia, in un colpo di scena degno di un episodio da campionato nerd, non gli è stato imposto di smantellare Chrome o Android, due pilastri del suo impero tech. Al contrario, il giudice Amit Mehta ha optato per un equilibrio frastagliato: niente rottura strutturale, ma nuove regole comportamentali e obblighi di condivisione con la concorrenza. Un verdetto che sembra dare respiro a Google, ormai abile nell’arruolare l’intelligenza artificiale — e nel farsi spazio in un futuro competitivo.
Google evita il divorzio da Chrome e Android: una vittoria cruciale
Il giudice ha scelto di non imporre la vendita di Chrome né la separazione da Android, asset strategici nella galassia Google che alimentano la sua supremazia nelle ricerche e nella pubblicità online. Questa decisione è stata accolta con entusiasmo dagli investitori: il titolo Alphabet (Google) è balzato tra il 7% e l’8% nella sessione post-annuncio.
Conservare Chrome e Android significa mantenere il controllo sugli ecosistemi digitali di milioni di utenti, rafforzando l’integrazione verticale con servizi come Gemini (assistente AI) senza ostacoli regolamentari evidenti. Una mossa intelligente che alimenta l’”AI first” strategia del gruppo.
Obblighi comportamentali: Google deve condividere dati, ma senza esclusive
La sentenza ha imposto a Google di:
- Cessare accordi esclusivi di distribuzione di Search, Chrome, Assistant e Gemini. In pratica, non potrà più chiudere contratti che impediscano ai produttori di inserire strumenti concorrenti.
- Fornire a concorrenti selezionati l’accesso agli indici di ricerca e ai dati di interazione utente. Obiettivo? Stimolare innovazione e livellare il campo di gioco per rivali che stanno sviluppando alternative AI, come OpenAI, Perplexity o Claude.
Il tutto senza ridurre drasticamente il potere di mercato: Google potrà continuare a pagare per essere il motore di ricerca predefinito, purché non in modalità esclusiva.
L’ascesa dell’AI stravolge la partita: “L’innovazione è una lepre, l’antitrust una tartaruga”
Il giudice Mehta ha inserito l’AI al cuore della sua motivazione: strumenti come ChatGPT, Perplexity e Claude hanno già trasformato il modo in cui le persone cercano informazioni, erodendo l’egemonia di Google. “L’innovazione corre veloce, l’antitrust arrancava.”
Questa visione ha indotto la corte a preferire rimedi meno drastici: la rapidità dell’innovazione avrebbe reso una rottura strutturale superata fin dal momento dell’eventuale attuazione.
Perché l’antitrust è in ritardo?
L’analisi del caso evidenzia una verità scomoda: l’approccio tradizionale è poco adatto per un mercato in continua metamorfosi. Anche se Google è stato dichiarato monopolista, le misure legali tardano a incidere quando la tecnologia evolve a velocità supersonica. Il giudice lo ha riconosciuto con una certa umiltà, ma questa “prudenza” rischia di lasciar vincere chi domina già.
Alcuni economisti e osservatori anti-monopoli temono che questa sentenza possa essere usata come precedente da altre Big Tech — Meta, Apple, Amazon — per argomentare che l’innovazione (leggi AI) rende obsoleto l’antitrust.
Reazioni: protesta, ottimismo misurato e strategia politica
- Dipartimento di Giustizia (DoJ): ha definito le misure “significative”, auspicando che l’eliminazione delle esclusività e il data sharing aprano finalmente il mercato. Tuttavia, resta vigile e pronto a spingere per ulteriori interventi.
- Gruppi antitrust: Public Knowledge ha commentato che “i tribunali non possono essere l’ultima parola nell’antitrust”, invitando al Parlamento a legiferare con norme specifiche per il tech.
- Google: ha ribadito che il mercato è altamente competitivo e promette battaglia in appello, anche fino alla Corte Suprema.
- Investitori: visibilmente rassicurati, con rialzi in borsa che riflettono la spinta verso la stabilità e l’innovazione sostenuta.
Conclusione: un compromesso destinato a non bastare?
La sentenza di inizio settembre 2025 incarna l’eterna tensione tra controllo antitrust e crescita tecnologica. Google sfugge alla frana strutturale, ma accetta di condividere dati e limitare i contratti esclusivi. Una mossa difensiva ma strategica. La domanda ora è: basterà davvero a favorire l’ascesa di nuovi competitor?
La risposta, forse, è solo temporanea. Con un mercato tech sempre più dinamico, l’azione normativa — non solo giudiziaria — diventa cruciale. Serve una legislazione capace di domare i colossi digitali, senza soffocarli, promuovendo innovazione e pluralità tecnologica.